Strepitoso concerto ieri sera al Lingotto per l’Unione Musicale, che ha tenuto ancora una volta fede alla sua missione culturale (e alla sua ragione sociale) unendo le anime del pubblico nel nome e al suono di una musica sublime. Le ultime due sonate di Schubert suonate da Krystian Zimerman rappresentano un evento eccezionale anche per gli ascoltatori più smaliziati, per quelli abituati a fruire ogni cosa al semplice comando di una tastiera connessa alla rete. Pochi pianisti al mondo possono attualmente concedersi e concedere il lusso di una frequentazione così esclusiva nell’empireo della musica universale incarnato da questi capolavori schubertiani. E affinché il lusso non sia ostentazione dev’essere gestito con l’intensa autorevolezza di una pacata consuetudine, armonizzando la visita guidata ai bioritmi dei convenuti. Anche per questo, Zimerman sceglie di mettere fra sé e il pubblico l’espressione più oggettiva dei tesori svelati, la partitura, quasi fosse un testo a fronte della poesia che egli vi legge in controluce. In quest’ottica, il grande pianista inizia il concerto senza sopraffarci subito con la sua arte: il primo movimento della Sonata in la maggiore è ancora su questa terra; il sublime Andantino si muove verso mete più alte al passo del Lied Pilgerweise (Canto di pellegrino), ma le sfiora soltanto complice quello che Heinrich Böll descrisse come il “contrappunto disarmonico” della tosse nevrotica e allergica al pianissimo di un ascoltatore con molti emuli. Oltretutto, i primi due sono movimenti che alcuni di noi hanno nelle orecchie con un suono più “viennese”, quello di Ingrid Haebler o Walter Klien ad esempio, e la visione sovra-nazionale (per non dire ultraterrena) di Zimerman richiede qualche minuto di assestamento. Giunti allo Scherzo, il maestro di cerimonia svela appieno lo splendore dei suoi luoghi musicali, che sono anche utopie: indossa persino una maschera di Carnaval ante-litteram, non più tardi di battuta 13, quasi a presagio del dedicatario postumo (e detrattore) di questa e delle altre due sonate estreme. Il trio è già trascendente nell’elevazione anche simbolica della mano sinistra sulla destra, e il suono perde ogni contingente urgenza. Tutto è pronto per il giardino di primavera, che in quell’autunno del 1828 Schubert seppe evocare dando al tema del suo Rondò i colori e i contorni del Lied Im Frühling, scritto due anni prima. Le parole che mancano sono compensate dalla poesia musico-verbale di Zimerman, che fa dialogare le due mani come in un Lied ohne Worte e poi si ferma con Schubert a meditare sulla bellezza del tema nell’incredibile episodio di pause che precede la coda. Nelle more di quell’esitazione la testa del tema si inebria di essenze minori, la sua risposta fiorisce spontanea nella regione del sesto grado, poi si fa interrogativa, infine affermativa: ma il miracolo dei tempi di Zimerman è nel loro seguire il naturale ordine delle cose, ivi compresa l’impalpabile frenesia del Presto conclusivo, con un uso del pedale che ci ha ricordato il finale della Waldstein da lui eseguita anni fa sempre in questa sala. Nell’ultima Sonata ciascuna di queste caratteristiche ha trovato la piena ragion d’essere: la radice verbale del primo tema (uno dei canti di Mignon abbozzati prima della redazione finale), la sua lenta lievitazione e levitazione grazie al ritornello che pochissimi possono vantare di saper rendere imprescindibile, le fasi estranianti dello sviluppo, che Zimerman ha saputo a un certo punto ricondurre con fermezza sui passi incerti del preludio del Wanderer, qui evocato. Ma se quel viandante “veniva dai monti”, Zimerman la sua vetta l’ha raggiunta subito dopo, nell’aria rarefatta dell’Andante sostenuto, dove egli ha scelto di trattenersi per un tempo virtualmente infinito, commovente metafora del compositore caro agli dei che indugia quanto più possibile su questa terra sebbene ogni battuta sia letteralmente un gesto di distacco. Ma già la ripresa del tema, con i rintocchi del ritmo del destino al basso inferti sulla tastiera dal perfetto staccato di Zimerman, esprime il senso di una tragica caducità incombente. Condotti magistralmente sulle onde del suono traslucido del pianista, Scherzo e finale sembravano riti di forzata allegria: segnali di monito (vedi i rintocchi in ottava del rondò) sapientemente aggirati dissimulandone la gravità armonica, accenni di danza della morte come nella tarantella del Quartetto n. 14, e il presto conclusivo, realizzato da Zimerman come gesto immediato e trascendentale di uno scampato pericolo confinato alla dimensione musicale dell’esistenza. Forse dopo questa Sonata, come dopo Winterreise, un bis è fuori luogo: ma l’omaggio di Zimerman al suo Szimanovsky, concretizzato in ben quattro preludi a gioco finito, è appunto un’altra forma della sua utopia.

Recensione di Erik Battaglia