«Si tratta di un concerto eroico»: così esordisce Miriam Prandi, giovane violoncellista mantovana, a proposito del Concerto di Dvořák che suonerà per l’Unione Musicale insieme all’Orchestra Giovanile Italiana.
In qualche modo, sarà per lei un ritorno a casa?
«Vengo da una famiglia di musicisti e sono stata molto fortunata nella mia educazione, innanzitutto perché non sono stata trattata come un fenomeno da esibire, ma ho potuto sperimentare la musica nel suo insieme. Ho avuto la fortuna di vivere in prima persona l’ambiente della Scuola di Fiesole, di cui l’Orchestra Giovanile Italiana è una delle realtà più interessanti, e di respirare l’eredità di Farulli, per cui era prioritario fare musica insieme e viverla nel reciproco ascolto. Ho poi cercato di prendere il meglio da chi mi ha accompagnato nel mio percorso, tanto dalla scuola italiana che si ispira a Janigro – con il suo rigore esecutivo – quanto dalla scuola russa, a cui mi sento particolarmente vicina per il mio temperamento istintivo. Mettendo insieme questi spunti, in un percorso di continua ricerca dell’equilibrio, ho iniziato a intendere la musica come un tempio classico, in cui il bello è dato dalle giuste proporzioni».
L’op. 104 di Dvořák è considerata il concerto per violoncello per eccellenza. Concorda?
«Sì, è vero, e credo emerga dalla partitura che Dvořák ha atteso tutta la vita prima di comporlo. È per me, anche emotivamente, un concerto prezioso: spesso ripercorro la mia esecuzione nella meravigliosa sala della Tonhalle di Zurigo dove ho vinto il «Rahn Musikwettbewerb». Dvořák vi ha utilizzato tutti gli strumenti espressivi del violoncello e, una volta iniziati, i quaranta minuti dell’esecuzione diventano fin troppo brevi: forse per questo bisogna attendere una così lunga introduzione orchestrale, perché quando il solista inizia a suonare il concerto emana una forza che trascina al finale. Il momento prima del famoso duo con il violino sprigiona una tale euforia che mi sembra di poter vedere il compositore di ritorno a Praga, dopo la sua lunga assenza. E poi mi commuovono le ultime battute del violoncello, che a differenza delle aspettative non sono virtuosistiche, ma nostalgiche».
Nelle sue esecuzioni colpisce la maturità espressiva, che non è scontata vista la sua giovane età. È merito in parte anche del suo strumento?
«In questo momento suono un violoncello che potrebbe essere di fine Ottocento o anche leggermente posteriore. Non è di un liutaio famoso e ogni tanto – specie nelle formazioni da camera – mi devo adoperare per tenerlo a bada, poiché ha una sonorità diretta, molto presente e talvolta aggressiva. Ma non è sempre detto che per suonare bene serva uno strumento di grandissima fama. Lo sento profondamente mio: cresciamo insieme ogni volta di più». (Articolo di Gabriele Montanaro)
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