Maestro Pianelli, quando ha realizzato che la musica sarebbe stata fondamentale nella sua vita?
«La musica ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Ho cominciato da bambino, al pianoforte, giocando con papà, pianista jazz. Non riesco a ricordare momenti della mia vita senza musica. Tutta la mia infanzia, l’adolescenza tra pallone, scuola e Conservatorio, sempre con i walkman, che poi hanno lasciato spazio a lettori MP3 e iPod. Più crescevo, più aumentavano le ore di studio, gli impegni professionali e quindi le ore di musica “attiva”, ma la musica è sempre stata lì. Anche quando sono nell’assoluto silenzio c’è musica nella mia testa e credo che, in fondo, sia così un po’ per tutti».
L’incontro con due grandi maestri come Giovanni Sollima e Thomas Demenga che cosa le ha donato, sia dal punto di vista umano sia professionale?
«A 10 anni è avvenuto l’incontro con il violoncello e con il mio primo maestro, Giovanni. L’ho sempre visto come un papà. Non mi ha mai imposto nulla, non mi ha mai detto di studiare o, anche negli anni vicini al diploma, imposto un’arcata o diteggiatura. Giocava con me, affrontavamo la tecnica direttamente sui brani di repertorio. Mi ha sempre spinto a essere curioso, a trovare sempre il maggior numero di soluzioni possibili a un singolo problema, a non fissarmi solamente sul violoncello e sui metodi classici. Ha insomma cercato di sviluppare più punti di vista possibili, così da essere libero di trovare le “mie” soluzioni, seguendo principalmente il mio istinto.
Se Giovanni Sollima è il mio papà musicale, Thomas Demenga può essere definito il nonno. Andai a studiare a Basilea con lui a 21 anni e mi fece sentire subito a casa. Per un siciliano non è facile adattarsi al rigore svizzero-tedesco. Non parlo, ovviamente, solo della vita quotidiana, ma anche e soprattutto nella musica. Thomas mi accolse facendomi sentire tutto il suo apprezzamento per la mia “libertà”, riuscendo a guidarmi verso la direzione del rigore accademico, evitando però vie traumatiche. Mi ha insegnato l’importanza della semplicità, della chiarezza e dell’onestà, oltre a non essere ossessionato dalla carriera e dal risultato a breve termine, concentrandomi soprattutto sul processo di apprendimento».
Come è nato il duo con Andriy Dragan?
«Io e Andriy suoniamo assieme da anni. Ci siamo conosciuti 8 anni fa alla Musik Akademie di Basilea e col tempo siamo diventati amici fraterni. Abbiamo condiviso tante cene, viaggi e perfino casa e questo ha permesso di conoscerci a fondo e di poterci fidare ciecamente l’uno dell’altro sul palco, permettendo grandi libertà estemporanee nelle esecuzioni».
Una volta per un giovane musicista di talento l’unica possibilità di emergere era vincere un prestigioso concorso internazionale; oggi, nell’era digitale, a molti neo-virtuosi basta aprire un canale Youtube o un profilo Instagram per raggiungere immediatamente milioni di ascoltatori ottenendo grande visibilità, consenso e (spesso) contratti discografici. Secondo lei questo cambia in qualche modo la percezione che l’artista ha di se stesso, il valore della sua arte e il giudizio di pubblico e critica?
«Non credo che le cose siano davvero cambiate più di tanto. Vedo sia i concorsi sia i canali social come opportunità per un lancio di carriera, ma credo che oggi come 50 anni fa la longevità di una carriera dipenda dall’integrità di un artista, da quanto sia devoto alla sua arte prima che al successo. La pericolosità dei concorsi sta nel fatto che spesso i concorrenti si concentrano per anni più sulla vittoria di un primo premio piuttosto che sull’esplorazione del repertorio e sulla crescita che avviene tramite la sperimentazione. Succede dunque che spesso i ragazzi studiano i soliti 7-10 brani per anni, cercando una solidità relativa, che si rivelerà controproducente, nonché limitante nel momento in cui si avesse la fortuna/sfortuna di vincere il mega concorso. Vedo però lo stesso pericolo nei social, dove tutto è superveloce, dove è facile cadere nella droga dei “likes” e dove, soprattutto i giovanissimi, possono perdere di vista l’obiettivo della crescita, per inseguire quella fama apparente, che magari dura una sola settimana. Non credo ci sia mai stato un unico modo di ottenere una determinata carriera. Ognuno di noi ha la sua unicità, il suo talento, e dovrebbe dedicarsi, secondo me, solo alla scoperta e al nutrimento dello stesso.
Non credo che la principale preoccupazione di un artista debba essere il quando e il come premiare il proprio talento: mi piace pensare che possa essere il caso a decidere se a farlo sarà la vittoria di un concorso, un meraviglioso video su Youtube o un discografico venuto per caso a un concerto. Per lo stesso motivo, non credo l’artista debba cambiare il suo modo di essere per assecondare il volere del pubblico o della critica. Quello che è importante, per me, è ascoltare, imparare, reagire e migliorarsi giorno dopo giorno».
Ci parli del suo brano in programma, le Variazioni sul Tema «Ciuriciuri»… un omaggio alla sua terra d’origine?
«Le Variazioni sul Tema “Ciuriciuri” è un pezzo che ho scritto su commissione del KlangBasel Festival nel 2016 e dedicato proprio ad Andriy Dragan. All’epoca avevo scritto meno di 10 pezzi e avevo trovato divertente, quasi comico che un festival importante mi chiedesse di scrivere un brano per violoncello e pianoforte che si ispirasse alle mie radici siciliane. Nonostante la grande responsabilità, piuttosto che affrontare il lavoro con paura preferii farlo con ironia, partendo già dal titolo (in seriosissimo tedesco “Variationen über ein sizilianisches Volkslied, Ciuriciuri”), continuando con la dedica provocatoria ad Andriy, pianista ucraino dal tocco classico ed elegantissimo, costretto a “sporcarsi” le mani con accompagnamenti volutamente grezzi, e mettendo in relazione autentici capolavori del grande repertorio cameristico col poverissimo materiale popolare siciliano. Nelle 5 variazioni, l’ascoltatore potrà infatti riconoscere citazioni dalle 7 Variazioni sul Flauto magico di Beethoven, dal Concerto per violoncello e orchestra di Elgar, dal Moto Perpetuo di Paganini, che incontrano per qualche battuta la scrittura ora bachiana, ora brahmsiana, o altrimenti la semplicità del marranzano o del “chitarruni”. È un brano che vuole divertire, con la sola eccezione della cantabile variazione centrale dal carattere melanconico, che ricorda la Sicilia araba».
Intervista raccolta da Gabriella Gallafrio per l’Unione Musicale
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