Chiara Burattini come ha vissuto questo periodo di sospensione dell’attività concertistica dal vivo?
«Ho cercato di mantenere sempre un’attitudine positiva. Innanzitutto mi sono goduta la mia splendida famiglia, che nel frattempo si è ulteriormente allargata con l’arrivo della piccola Lidia. Professionalmente sono riuscita ad affiancare allo studio del violoncello un’affascinante attività di ricerca che mi ha portato a scoprire un immenso repertorio per violoncello solo, nonché meravigliose pagine, molte delle quali praticamente inesplorate, che autori italiani dello scorso secolo hanno dedicato al mio strumento. In quest’ambito, insieme al pianista mio conterraneo Umberto Jacopo Laureti, abbiamo creato il progetto Italian Cello Files, di cui usciranno nei prossimi mesi un disco e un documentario».

Quali sono le emozioni nel ricominciare a suonare davanti al pubblico in una sala da concerto?
«Sarà un po’ come quando si torna a casa dopo un lungo viaggio solitario e ci si sente accolti dal calore umano. Le persone che ci ascoltano cambiano la temperatura della sala e dell’esecuzione, in senso letterale e figurato. Anche il suono degli strumenti viaggia in modo differente se la sala è piena o vuota. Sarà bellissimo riprendere quel dialogo magico che si instaura tra il silenzio dell’ascoltatore e le note che sono state custodite da noi musicisti nei tanti mesi di studio tra le mura di casa».

Lei è anche direttore artistico del festival di musica da camera “Il tempo sospeso”, come vi siete rapportati con lo streaming? Ritiene che questa modalità di produzione e fruizione abbia in qualche modo cambiato l’ascolto della musica?
«Per le caratteristiche del nostro festival abbiamo scelto di non avvalerci di questo mezzo, ma di attendere di poter riportare il nostro pubblico in sala.
In generale, l’ascolto di concerti dal vivo tramite le piattaforme online è già invalso da diversi anni. Da ascoltatrice posso dire che siamo già abituati a questa modalità di fruizione. La grande differenza è per chi suona, trattandosi di una forma ibrida tra il concerto, di cui però manca l’interazione emozionale con il pubblico, e la registrazione di un disco, in cui predomina la ricerca della perfezione formale. Noi musicisti siamo meno abituati a questo mezzo rispetto al pubblico ed è quindi molto diverso il prodotto artistico che ne risulta. In questo senso cambia senz’altro anche l’ascolto, in quanto correlativo necessario. Detto ciò, il concerto dal vivo, effimero ed irripetibile, è l’essenza della musica. È mancato tantissimo a tutti, pubblico e artisti».

Come è nata la collaborazione con la pianista Maddalena Giacopuzzi?
«Con Maddalena ci siamo conosciute all’Accademia Santa Cecilia di Roma quando frequentavo il corso di perfezionamento tenuto da Giovanni Sollima e lei studiava con Benedetto Lupo. Suonammo insieme per un esame di musica da camera e spontaneamente nacque una bellissima sintonia umana e musicale. Da lì abbiamo iniziato a collaborare in duo e in quartetto con pianoforte, esplorando tanto repertorio. In tutte le nostre esibizioni traspare il piacere e il divertimento che proviamo nel fare musica insieme».

Ci parla del programma che presenterete a Torino?
«Sono quattro affreschi realizzati nell’arco di circa 50 anni del 1800 da autori eccelsi. Il programma, che seguirà un ordine cronologico inverso, dalla composizione più recente a quella più remota, prevede la celebre sonata di César Franck, che da regalo di nozze al grande violinista Ysaÿe si è poi attestata come un capolavoro assoluto della storia della musica da camera, ricca di atmosfere decadenti. Seguirà un’Elegia di Franz Liszt, autore poco frequentato dai violoncellisti, ma brano di una bellezza struggente e l’Adagio e Allegro op. 70 di Robert Schumann, musica da camera di eccellenza e per eccellenza, scritta originariamente per corno, ma che da subito veniva eseguita dalla molteplicità degli strumenti che intrattenevano i salotti ottocenteschi accompagnati dal pianoforte. A chiudere una delle poche opere cameristiche di Fryderyk Chopin, l’Introduzione e Polonaise brillante op. 3, scritta quando aveva solo diciannove anni, in cui fantasia e leggerezza compongono un racconto vivace ed elegante».

Intervista raccolta da Gabriella Gallafrio per l’Unione Musicale