Perché avete intitolato il vostro gruppo ad un poeta (e non a un musicista)? Che cosa prendete in prestito dalla sua poetica?
«Jean Paul Friedrich Richter (1763-1825) fu uno degli scrittori più importanti del suo tempo. Ha avuto un’enorme influenza su Robert Schumann ed è stato di grande ispirazione per uno come lui, che inizialmente progettava di diventare uno scrittore oltre che un compositore. Le opere di Schumann sono state al centro del nostro interesse musicale quando abbiamo iniziato ad esibirci in trio. Inoltre, siamo molto interessati nella musica come linguaggio, poiché gli elementi retorici sono elementi costitutivi nelle composizioni musicali dal barocco fino ai compositori contemporanei».
Jean Paul diceva che “L’arte non è il pane, ma il vino della vita”. Secondo voi quali valori deve trasmettere la musica all’ascoltatore odierno?
«La musica classica, così come si è sviluppata nella cultura europea in circa 400 anni, può essere vista come la forma d’arte più completa della storia umana. Ci sono contenuti emotivi così come intellettuali che hanno la possibilità di raggiungere qualsiasi essere umano, esperto o meno. Chiunque sia aperto all’arte in generale può essere venire coinvolto dalle performance musicali, ed è nostro dovere esibirci in modo che ciò diventi realtà!»
Oggi come oggi l’ascolto della musica sulle piattaforme informatiche è estremamente diffuso (fenomeno ulteriormente incrementato dalla recente pandemia). Ha ancora senso l’ascolto della musica dal vivo?
«Niente può sostituire l’impatto di un’esibizione dal vivo! Le piattaforme informatiche offrono una visione sconfinata delle performance musicali nella storia, e può essere molto impressionante confrontare le interpretazioni in questo modo. Ma è ovvio che il collegamento diretto, tra gli interpreti in scena e il pubblico, è qualcosa che non sarà mai sostituito dai computer. Le vibrazioni create dai musicisti sono per lo più inconsce, e hanno bisogno di interazione, che un computer ovviamente non può fornire».
Ho letto che il vostro sviluppo artistico è stato segnato da figure come Hatto Beyerle del Quartetto Alban Berg e da altre sollecitazioni significative ricevute da Nikolaus Harnoncourt e Sir Roger Norrington. Qual è il principale insegnamento che avete ricevuto?
«La cosa più importante è mantenere vive le tradizioni. In passato, le persone andavano ai concerti per molti motivi sociali, e c’è un grande pericolo che questa abitudine si perda. Così come la tradizione di insegnare sulla musica a scuola. La pandemia di Covid-19 è stata un disastro perché ha interrotto l’”abitudine” ad andare a concerto e crediamo che servirà un grande sforzo per ripristinare queste buone consuetudini e per tornare a “contagiare” le persone (giovani e meno giovani) con il “virus” della musica».
Come avete scelto le opere in programma? Quali sono gli elementi che ritenete più coinvolgenti?
«I brani che eseguiamo a Torino sono semplicemente alcuni dei più bei brani del repertorio classico. Beethoven ha iniziato la sua carriera come compositore con la sua op. 1 volutamente con un trio per pianoforte, per tradurre in un modo unico le sue nuove idee di forma e contenuto, superando in questo campo Mozart e Haydn: il dialogo tra gli strumenti è più intenso, le forme più ampie.
Mendelssohn ha espresso nei suoi trii i suoi pensieri più intimi su sé stesso e sulla sua posizione di ebreo convertito alla religione cristiana, utilizzando nel movimento finale elementi musicali come le linee corali che rivelano le sue intenzioni. Brahms ha scritto i suoi trii in momenti cruciali della vita: nel Trio in do minore (che è in stretta connessione con le sue ultime sinfonie e il Doppio Concerto) il compositore si esprime come una persona più energica e più vulnerabile allo stesso tempo.
Si tratta quindi di opere che richiedono un grande coinvolgimento emotivo, e cercheremo di essere buoni collaboratori di questi tre “mostri sacri” ;-)»
Intervista raccolta da Laura Brucalassi per l’Unione Musicale