Nel 2020 ricorrono i vostri primi 20 anni di carriera. Come festeggiate questo traguardo?
«Nonostante il 2020 stia passando come un anno dedicato al Covid, che ha in parte inciso sul desiderio di dedicarsi alle cose belle, come Quartetto abbiamo fatto in modo che per noi questo non succedesse. Abbiamo ultimato un nuovo disco, studiamo nuovo repertorio, consolidiamo le nostre collaborazioni artistiche. Il modo migliore per festeggiare il nostro primo ventennio in questo difficile periodo è fare gruppo e continuare a mettere tutti noi stessi nell’avventura del Quartetto».
Un famoso Quartetto ha dichiarato: «I primi vent’anni servono per imparare a “suonare insieme” e i successivi venti per imparare a “suonare separatamente”». Che ne pensate? Come siete cambiati durante questi anni insieme?
«Trovo giusta la loro osservazione. Una delle cose che insegniamo ai nostri allievi è che il quartetto è il luogo dove ognuno deve trovare la libertà di esprimere la propria personalità. Spesso l’errore è di considerare il quartetto come una forma musicale con un’etica diversa, ma si tratta sempre di musica, in cui diverse sensibilità devono confluire in una idea artistica condivisa, senza annullarsi».
Dopo gli otto volumi dei Quartetti di Beethoven (Audite) che hanno ottenuto prestigiosi premi discografici (tra cui Echo Klassik 2017 e ICMA 2018) tra pochissimo (novembre 2020) uscirà il vostro nuovo disco Italian Postcards. Ce lo raccontate in anteprima?
«Quest’ultimo è un disco nato dall’idea di proseguire sul tema del nostro Italian Journey, inciso diversi anni fa che ha ottenuto molto successo, e in cui abbiamo illustrato – a nostro modo – un viaggio in Italia attraverso la musica di compositori italiani di diverse epoche e stili.
Italian Postcards mostra l’Italia musicalmente vista dai compositori stranieri che hanno amato il nostro Paese e la sua arte. Per questo abbiamo scelto il quartetto “Lodi”composto dal quattordicenne Mozart in stile galante, la “Serenata Italiana” di Wolf, il sestetto “Souvenir de Florence” di Tchaikovsky (insieme ai colleghi Ori Kam del Jerusalem Quartet ed Eckart Runge fondatore del quartetto Artemis). Infine, un brano commissionato proprio da noi a Nimrod Borenstein, intitolato “Cieli d’Italia”.
L’idea è nata un paio d’anni fa e il disco è stato registrato a dicembre, a Poirino nella tenuta Banna, dove abbiamo registrato quasi tutti i nostri dischi più recenti».
A Torino – che è l’unica tappa del vostro tour europeo – eseguite in prima assoluta e in anteprima rispetto all’uscita del disco il brano “Cieli d’Italia” del compositore Nimrod Borenstein. Come è nata la vostra collaborazione?
«La nostra collaborazione con Nimrod Borenstein è nata da un incontro quasi casuale. Simone aveva ascoltato un suo brano scoperto tra i suggerimenti di Spotify e aveva provato a contattarlo. Tempo dopo Nimrod ha scritto a Simone poiché aveva avuto occasione di sentire una nostra interpretazione di Beethoven che gli era piaciuta molto. Così siamo entrati in contatto e lo abbiamo invitato ad un nostro concerto al British Museum di Londra: da lì è nata un’amicizia molto bella, basata anche su una grande e reciproca stima professionale. Quando si è verificata la possibilità di registrare un brano contemporaneo da inserire nel CD “Italian Postcards” – cosa a cui tenevamo molto per dare anche una continuità temporale al tema principale del disco ovvero l’amore dei compositori stranieri per l’Italia – abbiamo chiesto a lui di scriverlo. C’erano tempi strettissimi: Simone lo ha chiamato proponendogli “un’idea folle” e lui ha risposto “amo solo le idee folli”. Nimrod ha scritto in un solo mese questo meraviglioso brano che non vediamo l’ora di eseguire in prima mondiale a Torino. Siamo sicuri che questa collaborazione avrà bellissimi risvolti e continuerà nel tempo».
Non è la prima volta che collaborate con compositori contemporanei. Che opportunità regala questo tipo di esperienza?
«In questi vent’anni abbiamo suonato moltissima musica contemporanea, di autori italiani e non. Il rapporto con un compositore è ciò che ci manca quando suoniamo i classici. Quale musicista non sogna di poter chiedere a Beethoven come si suoni la sua musica? L’incontro con un bravo compositore ha solo aspetti positivi, ed è l’unico modo per accedere ad un linguaggio che, nella musica di oggi, rispecchia una impressionante pluralità di idee ed estetiche diverse tra loro.
Tra gli autori che abbiamo approfondito di più ci sono sicuramente Fabio Vacchi e Silvia Colasanti, di cui abbiamo suonato diversi lavori, e Helmut Lachenmann, che cito sempre proprio per via del rapporto che si è creato tra noi e lui durante lo studio del suo quartetto “Grido”. In quel caso, le tecniche strumentali di sua invenzione presupponevano diversi incontri per poterle acquisire: non si sarebbe potuto farne a meno. Ma lavorare con un compositore significa anche accedere ad una visione diversa e talvolta più completa della musica del passato, perché c’è un filo conduttore che parte dalle prime forme musicali alla musica di oggi (almeno quando si parla di buona musica). La cosa che spesso ci colpisce è quanto la pratica sui brani “di repertorio” porti spesso ad una cristallizzazione delle scelte musicali, mentre la frequentazione dei grandi compositori contemporanei insegna che un brano è sempre in evoluzione e che, se Mozart fosse ancora tra noi, farebbe cambiamenti alla sua musica anche grazie al suo rapporto con gli esecutori. Insomma si può parlare senza ombra di dubbio di una simbiosi in cui il tentativo del raggiungimento della perfezione spetta a tutte le parti coinvolte: compositori, esecutori e certamente anche pubblico».
Intervista raccolta da Laura Brucalassi per l’Unione Musicale