Nel concerto di lunedì 3 aprile per l’Unione Musicale, intitolato “In rime sparse il suono”, eseguirete una vasta panoramica di brani del primo Seicento. Come stava cambiando la musica in quel periodo? Che cosa ci farà capire l’ascolto delle musiche in programma?
«Compositori come Peri, Caccini, Cavalieri che furono promotori del nuovo stile, la monodia accompagnata, e ancora prima Vincenzo Galilei (nella seconda metà del Cinquecento) avevano come intento principale quello di discostarsi dai procedimenti troppo intellettualistici e artificiosi della polifonia con il suo intrecciarsi contrappuntistico delle voci, poiché secondo loro quel modo di comporre non focalizzava abbastanza l’attenzione sulla parola(nel senso che non ne illustrava il significato emotivamente). La polifonia infatti non era fino in fondo capace di esprimere gli “affetti” per via di regole troppo artificiose che non lasciavano spazio a esigenze di natura espressiva. Questo accadeva sia nella musica, sia nella poesia. I compositori del nuovo stile desideravano invece ritornare a evocare l’ideale dell’arte greca antica, con la sua grande semplicità ma anche la sua grande potenza espressiva. Quindi cercano di comporre linee vocali più libere e “sciolte”, capaci di trasmettere emozioni e non solo di essere piacevoli all’orecchio».

Autori come Sigismondo D’India, Caccini, Monteverdi, Cavalieri, Merula, Frescobaldi e Cavalli mettono la parola al centro della composizione musicale. Questo che cosa comporta per gli esecutori, sia della parte vocale sia di quella strumentale?
«Mi rendo conto che sia un’affermazione un po’ forte, ma credo che per i cantanti lo sforzo da fare sia quello di dimenticare che… sono cantanti! È un esercizio molto difficile, soprattutto quando si proviene da studi su epoche che pongono nel centro dell’estetica vocale la bellezza del suono, cosa molto ambigua. Questo è il motivo per cui Monteverdi voleva per la sua Arianna, un’attrice e non una cantante. Quindi ritornare a parlare per i cantanti è essenziale e non solo per questo repertorio. La componente strumentale a sua volta deve assumere la stessa sostanza della voce così che insieme diventino poeticamente “anima e corpo”. Una simbiosi compenetrante».

Lo sviluppo della monodia accompagnata (che prevede la voce di un cantante accompagnata da uno strumento) come ha modificato gli strumenti musicali? Ne sono stati inventati di nuovi appositamente?
«In questo periodo entra in scena magistralmente la tiorba, strumento molto rappresentativo del primo barocco, a parte il clavicembalo, l’arpa doppia e i vari strumenti della famiglia della viola, parlando degli strumenti che normalmente accompagnavano la voce. Nel primo Seicento la tiorba o chitarrone (come la si chiamava a Roma) diventa protagonista della nuova musica anche come strumento solista, grazie a due grandi musicisti che Michele Pasotti interpreterà nel corso del nostro concerto: Alessandro Piccinini e Giovanni Kapsberger».

Alena, lei è un’interprete molto versatile che si dedica a vari repertori vocali (dalla musica antica a quella contemporanea), ma ho letto che ha una predilezione per la musica rinascimentale e barocca. Perché? Come interprete, quali opportunità le offre questo repertorio?
«Sì, è vero. Amo molto scoprire ed esplorare vari repertori e varie epoche. Ho avuto il mio “momento mistico e religioso” quando ho studiato canto gregoriano con Fulvio Rampi a Torino, poi ho cantato molto repertorio del ventesimo secolo e musica contemporanea con il Trio Debussy e il Fiarí Ensemble qui a Torino. Inoltre da tanti anni mi occupo di musica medievale con il gruppo La Fonte Musica, e in questo momento faccio parte del cast di un’opera contemporanea del compositore Vanni Moretto, che mi connette con il pensiero musicale attuale, quello dei nostri giorni e sono molto felice di questa opportunità.
Detto ciò, quando ho scoperto Monteverdi con Dario Tabbia, il mio maestro di coro al Conservatorio di Torino, si è aperto un mondo che non conoscevo e mi ha affascinato enormemente. Il mio primo approccio con il barocco italiano è avvenuto con i madrigali più commoventi e straordinari, che mi hanno letteralmente trascinato in quella direzione. Da lì in poi ho voluto sempre di più scoprire e concentrarmi su quest’epoca della storia della musica.
Cantare con due, tre strumenti o solo con uno – come nel caso del concerto per l’Unione Musicale in cui ci saranno solo voce e tiorba – è come dialogare e ascoltarsi nei più minimi dettagli, procedere nel discorso musicale con un’idea e una visione condivisa e ben studiata (perché a me piace molto provare e per fortuna anche a Michele Pasotti!). Quindi questa complicità musicale e umana ci permette di approfondire, di discutere le scelte musicali. Credo che la musica da camera sia uno degli ambiti che mi attraggono di più, poiché dà la possibilità (se non il dovere) di essere trasparenti e intellegibili».

Tra quelli che eseguirete a Torino, c’è un brano che ama particolarmente e perché?
«Con particolare affetto e piacere canto il Lamento di Didone di Sigismondo D’India, brano straordinario nello stile del “recitar cantando”, esempio magnifico di questo “nuovo modo” di fare musica come lo definì Giulio Caccini. Siamo di fronte a un linguaggio estremamente fluido e cangiante, provocato essenzialmente da ragioni di natura espressiva, che dà modo all’interprete di esprimere con gran realismo la potenza drammatica del testo . Questo lamento è una vera e propria scena d’opera. La natura del testo, l’espressione dell’amore infelice, l’abbandono, la tristezza sono trattati con una perfetta aderenza musicale alla parola, che, priva di qualsiasi esuberanza e superficiale virtuosismo, restituisce il sentimento con profonda sincerità e purezza».

Intervista raccolta da Laura Brucalassi per l’Unione Musicale