Da quale desiderio nasce Indialucia?
«All’origine della collaborazione non vi è stato un vero e proprio intento programmatico, ma il tutto è nato da un incontro in India che ha gettato spontaneamente le basi del nostro repertorio.
Il contatto profondo con la diversità, la stimolante esperienza di mettere alla prova le convenzioni del proprio linguaggio musicale, la possibilità di apprendere e arricchirsi dall’altro, e, non plus ultra, la gioia di condividere il risultato di questa sperimentazione con un pubblico vario, sono molti degli elementi che continuano ad alimentare il progetto di Indialucia».
Indialucia è una delle prime band che è riuscita a combinare con successo musiche di tradizioni molto lontane come la musica tradizionale indiana con il flamenco andaluso. Quali sono i presupposti musicali e umani per riuscirci?
«Vi sono convergenze che agevolano l’interazione fra questi due sistemi musicali. Innanzitutto la presenza di una struttura metrica precisa sulla quale si sviluppa il discorso musicale: questa consente ai musicisti di esplorare la poliritmia e il contrappunto, anche nel corso dell’improvvisazione, mantenendo sempre un certo ordine ed equilibrio., Vi sono inoltre risonanze tra alcuni modi musicali indiani (chiamati raga) e le scale utilizzate nel flamenco. È evidente, ad ogni buon conto, che il presupposto per un lavoro di questa natura è l’apertura mentale di musicisti esperti conoscitori del proprio idioma musicale, che siano in grado di “dialogare” con colleghi di diversa cultura con rispetto e disposizione all’apprendimento».
Indialucia sembra una metafora di dialogo possibile (e piacevole!) tra culture differenti: è così?
«Storicamente l’interculturalità è stata foriera di grandi innovazioni nella musica: è vero per i compositori della Belle Époque, quanto per la genesi del jazz. Il flamenco e la musica classica indiana affondano le proprie radici in humus profondamente multietnici. I processi di sincretismo culturale rispondono ad una necessità evolutiva di incrociare elementi dissimili. L’innovazione spesso passa attraverso la contaminazione. Il dialogo tra culture non è solo possibile, ma è necessario alla sopravvivenza e al rifiorire della creatività. Indialucia rappresenta quindi per noi l’espressione di questi valori».
A febbraio arriverete all’Unione Musicale di Torino, ente che si occupa prevalentemente di musica di repertorio classico. Come ascoltatori, l’approccio alla musica classica e al vostro repertorio è differente?
«Sicuramente, ogni tradizione musicale ha la propria estetica e scala di valori. Il flamenco pone grande enfasi sulla varietà ritmica e il virtuosismo dei suoi interpreti. La musica indiana, invece, tratta minuziosamente gli abbellimenti delle melodie, e da ampio spazio all’espressività delle percussioni.
In termini di composizione le due tradizioni si discostano, dato che la prima conferma il valore occidentale dell’opera d’arte conservata nel tempo, mentre la seconda ha ragione d’essere nell’evento presente in cui la creazione estemporanea si realizza e mai si ripeterà.
In entrambi i casi l’intenditore riconoscerà le strutture metriche e gli incisi melodici tradizionali che vengono rielaborati. Mentre un pubblico di diversa estrazione potrà apprezzare la qualità timbrica degli strumenti e le suggestioni di queste musiche».
Le musiche che suonate sono tradizionali oppure scritte da voi o da altri compositori?
«ll repertorio di Indialucia è costituito esclusivamente da brani originali composti dai membri del gruppo. Gli aspetti formali, le tecniche compositive e alcuni richiami tematici provengono dalle due tradizioni. Le composizioni prevedono diversi momenti d’improvvisazione».
Intervista raccolta da Laura Brucalassi per l’Unione Musicale