Questo concerto è un omaggio a Robert Schumann. Che cosa ama particolarmente di questo autore?
Schumann è un autore estremamente complesso, ancora oggi in parte frainteso e non compreso, soprattutto l’ultimo Schumann, quello a partire dal 1859. Come scrive Michel Schneider, autore di un bel libretto sull’ultimo Schumann, intitolato La tombée du jour, «la musica di Schumann non è fatta solo di note. Fa sentire dall’interno voci che parlano, raccontano, gridano. Fa vedere persone e paesi stranieri. Rende sensibili i pensieri e da corpo alle emozioni». Questa capacità di intridere la musica di pensiero è uno dei motivi del fascino che provoca in me la musica di Schumann. L’ossessione per le Innere Stimmen, è la volontà di Schumann di par parlare la sua musica, di portare il suono alla parola, in cerca di trascendenza della condizione umana o puramente materiale. Una polifonia speciale che ha dato esiti tecnici di scrittura, soprattutto per il pianoforte e la musica da camera, davvero particolari.
In programma ci sono varie sue composizioni. Ce le può brevemente raccontare, con particolare riferimento ai brani Fu verso o forse fu inverno in prima italiana e Altra voce in prima esecuzione assoluta?
Mi limito a dire che il filo rosso che lega queste composizioni è l’idea di un’espressione musicale così discreta da poter contenere dei segreti. Alla stregua di Schumann, la mia intenzione non è tanto quella di esprimere un’idea direttamente, magari con enfasi, energia e virtuosismo, ma di imprimerla, inscriverla dentro la composizione, temperando al massimo la volontà di dire (che molto spesso è legata a una presunzione di tipo narcisistico da parte dell’artista) scegliendo mezzi e dispositivi espressivi che quasi vi si oppongano. Per questo motivo parlo di musica in-espressiva, cioè di musica resa ancor più espressiva per il fatto di usare delle tecniche di scrittura che criptano nella musica stessa gli enigmi significanti che l’ascoltatore attento può scoprire all’ascolto e scorrendo le partiture. Anche Schumann faceva così! Per la composizione Fu verso o forse fu inverno, quasi un ciclo liederistico schumanniano, vorrei citare alcuni frammenti dalla presentazione che scrissi per la sua prima esecuzione, nel 2015: è un omaggio alla poesia di Lorenzo Calogero (1910-1961), poeta italiano purtroppo ignoto ai più, a cui mi sono avvicinato grazie a Giuseppe Caccavale, artista, e a Marina Valensise, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Affascina a una prima lettura la bellezza e la musica(bi)lità dei suoi versi, quasi anestetizzanti la sofferenza dello sguardo profondamente introspettivo con il quale Calogero analizza attentamente emozioni, sentimenti e percezioni e cerca scrupolosamente le parole e le corrispondenze di suono per trasfigurarle. È dunque una poesia intimista, ma che non si richiude su se stessa in auscultazioni compiaciute e solipsistiche. Nelle sue costruzioni sonore, Calogero crea labirinti che portano a liberare e a trascendere il dolore di una condizione personale attraverso la quale egli esprime la sua viva conoscenza delle cose, e non a imprigionarle in un universo autistico e autoreferenziale. Visioni fantastiche eppure plausibili, associazioni improbabili, parole che in virtù della loro collocazione reciproca e della loro posizione nel verso, corrispondente o meno al suo ritmo naturale, sembrano suonare diversamente o significare diversamente, pur essendo da sempre scolpite nella familiarità del senso comune apparente.
Nella sua realizzazione, questo ciclo vocale – forse destinato ad avere un prolungamento – si presenta in una maniera del tutto convenzionale: una serie di liriche accompagnate dal pianoforte e “straniate” dall’elettronica che, diffusa sia all’interno del pianoforte stesso tramite degli eccitatori posti sulla tavola armonica, sia nello spazio della sala da concerto in maniera trasparente o spazializzata, si occupa proprio di trasfigurare la scrittura musicale e l’espressione poetica che essa contiene, in piena adesione al testo calogeriano. Così agendo proprio come la poesia di Calogero, compiendo un percorso che va dall’intimità delle emozioni sentitamente descritte alla loro sublimazione in metafore di pensiero.
Come nasce la sua collaborazione con gli artisti coinvolti nel concerto?
Collaboro con gli amici di Ex Novo Ensemble da quasi una decina d’anni. Tutto è cominciato grazie all’amicizia con Aldo Orvieto, il pianista del gruppo (fondato dal compositore Claudio Ambrosini nel 1979), che è l’istigatore di alcuni dei brani per pianoforte che ho scritto da una decina d’anni a questa parte, tra cui questo progetto sulle Innere Stimmen, le voci invisibili, di Schumann. Aldo è un grande camerista, profondo conoscitore e interprete del repertorio da camera, soprattutto classico-romantico e dei primi del Novecento. Aldo mi ha permesso di lavorare con Alvise Vidolin, grande maestro del suono elettronico e della diffusione del suono nello spazio, naturalmente e organicamente concepiti come un tutt’uno con il suono strumentale e vocale. Alvise è stato un importante collaboratore di Luigi Nono e oggi suo interprete ed esegeta. Così, un po’ alla volta, sono stato “adottato” dal gruppo veneziano, che dal 2010 circa esegue regolarmente la mia musica e mi consente di elaborare con loro nuovi progetti, forse anche in nome della naturale antica consonanza artistica e culturale con la Repubblica della Serenissima, di cui anche la mia città natale (Bergamo) faceva parte. Può sembrare banale ciò che dico, ma non faccio altro che ribadire ciò che altri illustri maestri veneziani hanno detto, primo fra tutti, per quanto riguarda la musica, il compositore veneziano Luigi Nono (che definisco il mio “iniziatore” ai misteri della composizione musicale): a Venezia c’è un modo di vivere il “suono” e la storia che il suono porta con sé che è speciale, frutto di una sensibilità e di una sapienza particolari e sedimentate geneticamente. Con Alvise, Aldo e con gli amici di Ex Novo mi sento a contatto con Monteverdi, i Gabrieli, Paolo Veneziano, Giovanni Bellini, fino a tutti gli artisti che ebbero un legame importante con questa città…
La sua importante carriera l’ha portata a lavorare anche molto all’estero, cosa si sente di consigliare a un giovane che si affaccia oggi alla professione del musicista?
I tempi sono molto mutati, ora, rispetto a quando io ero giovane studente del Conservatorio di Milano (secondo i consigli di Luigi Nono), allora una fucina di compositori promettenti. Il compositore non è più un mestiere ambito, e ha, come per tutti gli intellettuali del tempo presente, un ruolo sociale estremamente marginale. Non è più, insomma, un mestiere ambito. Ciò non toglie che non si possa, ancora oggi, essere compositori, o essere artisti, in senso generale. Non bisogna confondere l’entusiasmo e la passione per la musica con il desiderio di realizzazione personale: tutto ciò è grande causa di frustrazione e un enorme deterrente alla studio e alla ricerca individuali. Da docente di Conservatorio, prima in Italia e dal 2006 a Parigi, assisto a ogni sorta di tentativo di scorciatoia, da parte degli studenti in cerca di fama, per evitare il duro, eppure entusiasmante percorso di studio per apprendere un mestiere che deve sublimarsi nell’espressione creativa. E molto spesso, quando il successo arride per motivi secondari o piuttosto indipendenti dalla qualità del proprio lavoro e della propria ricerca, il percorso di conoscenza infinito che è lo studio di una disciplina artistica si arresta e si passa al marketing, che può appassionare l’artista in cerca prima di tutto di un’autoaffermazione personale più che del piacere della sua arte. Schumann, per tornare al compositore faro di questo concerto, come tutti gli artisti “autentici” della storia (permettetemi di usare questa parola: “autentico”) era mosso da tutt’altre preoccupazioni e desideri di conoscenza. Non intendo dire che non ci siano giovani compositori mossi da altrettanto autentiche (e persino distruttive, come nel caso di Schumann) profonde motivazioni, ma il sistema dell’industria culturale, e del marketing imperante che ne consegue, fa si che i giovani, prima ancora di essere confrontati alla storia e alle tecniche dell’espressione artistiche che la storia ci tramanda, si debbano occupare di problematiche come il successo e la redditività di un percorso di studi. L’istruzione accademica relativa al mondo dell’arte è così ben diffusa e strutturata in Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia e ora in Cina e in certi stati del Sudamerica che davvero uno studente di talento potrebbe costruire un percorso di studi appassionante e ben garantito dall’istituzione di appartenenza. Ma il mondo “reale” è là fuori, con i suoi modelli di successo e le esigenze che impongono.
La musica contemporanea spesso è ritenuta di difficile fruizione e in Italia richiama ancora un pubblico elitario. Secondo la sua esperienza, come si può fare per avvicinare i giovani a questo tipo specifico di repertorio e attirarli a concerto?
Prima di tutto, che gli artisti e gli organizzatori e i protagonisti in genere della cultura e dell’arte appartenenti a questa supposta minoranza elitaria la smettano di sentirsi in colpa per il fatto di essere portatori di tecniche, sensibilità, e volontà espressive che non appartengono alla grande massa. A ben vedere, nell’era della tecnica, o della tecnologia imperanti, tutto è élite, perché l’apparentemente democratizzazione garantita dalle macchine (ogni tipo di tecnologia “smart”, dai telefonini ai computer, ai robot, a ogni dispositivo “intelligente”) è il frutto di un sistema elitario che risponde a logiche scientifiche, commerciali, politiche o altro ancora, tutte elitarie perché nelle mani di un ristretto gruppo di ideatori, investitori, realizzatori, fabbricatori, divulgatori. Eppure alle macchine “smart” ci si affida con fiducia… Il problema è come sempre quello dell’accesso e della diffusione delle conoscenze, dell’istruzione e dell’educazione che devono essere capillari, in modo da creare fiducia e curiosità nei confronti dell’universo dell’arte e della cultura di tipo “esigente”. A mio modo di vedere, l’arte e la cultura, che nascono dall’istinto, dal talento, dalla passione, dalla visionarietà, dallo studio e dalla ricerca di donne e uomini votati a ciò, non sono elitari: non vogliono essere incomprensibili ai più, non cercano la distinzione, il sigillo di qualità dell’esoterismo tout-court, e non giocano nemmeno al fraintendimento dell’arte supposta “alta” verso quella “bassa” che non potrà mai essere capita da chi si contenta dei gusti e dei meccanismi di consumo culturale delle masse. L’elitarismo del Ventesimo e del Ventunesimo secolo sono il frutto di un sistema socio-economico che ritiene che l’istruzione artistica e la formazione culturale debbano fermarsi a un certo punto e non andare oltre l’idea di un “divertissement” generalizzato e generalizzabile (e ciò vale anche per l’arte tradizionale), in maniera da poter preparare i clienti consumatori dei prodotti dell’industria culturale – a cui anche la musica cosiddetta colta appartiene – non tanto i fruitori curiosi e dotati degli strumenti di sensibilità che una capillare formazione culturale potrebbe fornire. Lasciando così a una minoranza di persone “particolari” l’hobby, la mania, l’eccentricità o la perversione di una ricerca “non convenzionale e dunque incomprensibile” (per quanto riguarda gli artisti creatori) e di un nutrimento d’élite (per quanto riguarda i fruitori) perché al di fuori degli schemi correnti.
Intervista raccolta da Gabriella Gallafrio per l’Unione Musicale
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