Cominciamo con un balzo indietro nel tempo: quando è nato il suo amore per il pianoforte?
Avevo solamente 5 anni e mezzo: ero al compleanno di un compagno di scuola che a casa aveva un pianoforte. Non era la prima volta che ne vedevo uno, ma fu esattamente la prima volta in cui sentii eseguire dei pezzi dal vivo. Infatti le sue sorelle più grandi, studenti di pianoforte, improvvisarono un quattro mani per i bambini. Io mi innamorai e, tornato a casa, convinsi mamma a portarmi da un insegnante per iniziare anch’io.
Quando ha scelto di diventare musicista professionista? Altrimenti che cosa le sarebbe piaciuto fare?
Credo di non aver mai scelto nulla: mi sono sempre posto obbiettivi relativamente a breve termine cercando di concentrarmi al massimo e di pensare più al percorso che alla meta finale. Alcune cose poi sono andate bene e mi sono praticamente ritrovato in un mondo in cui mi sento quasi completamente a mio agio e che ha saputo già darmi belle soddisfazioni. Se non avessi fatto il musicista mi sarebbe piaciuto essere uno sportivo, penso che lo sport e l’arte abbiano molti punti di contatto e si equivalgano, soprattutto nella preparazione, dedizione e nella cura dei dettagli. Oppure il pittore: disegno e dipingo da sempre…chissà cosa riserverà il futuro, sicuramente non giocherò mai per la nazionale di calcio!
Ci sono stati nel suo percorso dei momenti in cui ha pensato di mollare tutto e cambiare direzione? Se sì, che cosa l’ha convinta a proseguire?
Molte volte; a volte ancora mi chiedo in che modo posso contribuire al valore della vera Musica oggi. Il dubbio è fondamentale per la crescita, ma bisogna prendere spunto dall’esperienza e pensare sempre in positivo. Con un’attitudine positiva (preferisco dirmi: “fai così”, piuttosto che: “non fare così’), man mano si aggiungono faticosamente piccole certezze ed idee dal punto di vista sia esecutivo e tecnico che interpretativo. Bisogna sempre provare, credendo davvero che l’indomani sia migliore.
Tra i brani che presenta a Torino ce n’è uno a cui si sente maggiormente affezionato? Perché?
Non ce n’è uno in particolare, ma il tema delle ballate è stato significativo sin da quando ero in conservatorio. Il loro carattere narrativo è emblematico di una comunicazione avvincente e spesso vincente.
Qual è il momento più emozionante che ricorda del suo percorso musicale?
La finale prima della vittoria al premio Venezia 2011. Ero un ragazzino neanche diciottenne con niente da perdere che veniva assolutamente dal nulla. Ogni tanto quando ci ripenso mi complimento col “me” di 7 anni fa per la sua forza e determinazione, che mi servono come monito: quella energia è e sempre sarà ancora da qualche parte dentro di me.
Qualche anno fa per un giovane musicista di talento l’unica possibilità di emergere era vincere un prestigioso concorso internazionale; oggi, nell’era digitale, a molti neo-virtuosi basta aprire un canale Youtube o un profilo Instagram per raggiungere immediatamente milioni di ascoltatori ottenendo grande visibilità, consenso e (spesso) contratti discografici. Secondo lei questo cambia in qualche modo la percezione che l’artista ha di se stesso, il valore della sua arte e il giudizio di pubblico e critica?
Assolutamente sì. Succede anche con i non musicisti: mi viene da pensare a volte che oggi spesso l’autostima si basi sui numeri (likes, follow eccetera), ma sarebbe veramente semplicistico e riduttivo di un fenomeno di isolamento sociale più grande. L’arte non si può quantificare, ma qualificare (meglio, apprezzare) e il consenso non è un cuoricino virtuale ma sentire il respiro della sala sincronizzato con il ritmo vitale di quello che succede sul palcoscenico. E soprattutto avremmo tutti bisogno di far meno calcoli, pensare di meno e sentire di più.
Intervista raccolta da Laura Brucalassi per l’Unione Musicale
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