Il Concorso Čajkovskij del 1966 venne vinto da un giovane di 16 anni nato e cresciuto a Leningrado. La commissione era presieduta da Emil Gilels che, obbligato dalla decisione unanime della giuria, decreto Grigory Sokolov vincitore assoluto di quell’edizione del famigerato concorso. Oggi, a 67 anni, Sokolov fa parte di quel gruppetto di pianisti da leggenda che trasformano ogni concerto in un evento.
Al Lingotto propone pagine di Mozart e Beethoven, affiancando al Classicismo maturo e compiuto dell’uno le sperimentazioni più ardite e feconde del secondo, in un gioco di contrasti che fa venire in mente una tela di Goya. Sokolov presenta, assieme, la Fantasia K. 475 e la Sonata K. 457, entrambe in do minore, in una sorta di grande affresco dalle forti tinte drammatiche, stemperate da momenti d’intenso lirismo. Al do minore di queste pagine, piene di interrogativi proposti all’ascoltatore, viene contrapposta la Sonata più luminosa di Mozart, la celeberrima K. 545 nella quale ogni nota, ogni respiro, ogni fraseggio, ogni battuta contiene in se la perfezione raggiunta con il minimo dei mezzi.
Sull’economia dei mezzi, e sulla necessita di togliere il superfluo, avrà riflettuto Beethoven nel 1814, anno nel quale completo la Sonata n. 27 op. 90, composta da soli due movimenti. Il primo e di respiro sinfonico e di carattere “eroico”, il secondo – come ben sottolinearono i critici dell’epoca – semplice, ricco di melodia, pieno d’espressione, di chiarezza e di dolcezza. Otto anni dopo Beethoven affronto per l’ultima volta il genere della sonata per pianoforte adottando ancora una costruzione formale in soli due movimenti, quelli dell’op. 111. Solo Thomas Mann, nel Doktor Faustus, ha saputo indagare nel profondo la grandezza di questo spartito: «L’atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare… e come una carezza, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo». (Articolo di Paolo Cascio)

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